Mantenere una seconda casa è un onere economico che in pochi possono permettersi. Non ci sono solo le bollette condominiali e la normale manutenzione che anche ad un appartamento vuoto è necessario svolgere di tanto in tanto. Ci sono soprattutto le tasseche pesano oggi più che in passato. Ecco perché, chi ha la fortuna di trovare un “buon” inquilino, riesce ad ammortizzare la spesa. Tuttavia anche l’affitto presenta le sue problematiche. Innanzitutto, è necessario registrare il contratto: in caso contrario l’accordo è nullo. Poi c’è da pagare l’Irpef sui canoni mensili percepiti. Infine pesa la valutazione che ogni padrone di casa è portato a fare: aprire la casa a una persona sconosciuta, con tutte le conseguenze che possono derivare dalla morosità e dalle lungaggini processuali, significa correre il rischio di affrontare spese (comprese quelle legali) senza alcun ritorno. Ed allora, se davvero si vuol fare un buon affare, bisogna riuscire a strappare condizioni contrattuali vantaggiose. A riguardo abbiamo già descritto, in un precedente articolo, la cosiddetta «clausola risolutiva espressa» che consente di interrompere il contratto senza tribunale: una sorta di sfratto automatico. Oggi, invece, una importantissima sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione [1] risponde a un altro interessante quesito: si possono far pagare le tasse di casa all’inquilino?
Immaginiamo di inserire, nel contratto di affitto, una clausoletta del seguente tenore: «Il conduttore si farà carico di ogni spesa, tassa, imposta e onere relativo all’appartamento locato». In buona sostanza il padrone di casa mira a scaricare il peso dell’Imu e della Tasi (le attuali tasse sulla casa) sull’affittuario. Può farlo?
Quali tasse è eventualmente tenuto a corrispondere l’inquilino? Ecco cosa ha risposto, in proposito, la Cassazione.
Ci preme fare un passo indietro per confrontare come la giurisprudenza si è già espressa con riferimento alla ripartizione dell’imposta di registro da versare all’Agenzia delle Entrate entro 30 giorni della firma del contratto. Se la regola vuole che tale onere sia ripartito tra proprietario ed inquilino, ciascuno per metà dell’importo, il contratto può tuttavia contenere una differente previsione: può cioè addossare tutto l’onere sul padrone di casa. Secondo la giurisprudenza [2] è, invece, nulla la pattuizione inversa (ossia far cadere tutta la spesa sul conduttore). In ogni caso, per il mancato versamento dell’imposta di registro la legge prevede una responsabilità solidale tra le due parti: significa che il fisco può chiedere il pagamento per intero a ciascuna delle due o ad entrambe (il pagamento da parte di uno libera però anche l’altro).
C’è poi una seconda considerazione da fare. Le tasse gravano in ragione della capacità contributiva di ogni cittadino; sono pertanto “personali”. Fatte salve le ipotesi di coobbligati in solido, il soggetto responsabile è solo il contribuente che risponde ai requisiti soggettivi e oggettivi previsti dalla specifica legge tributaria.
Stando così le cose, sembra potersi dire che “ognuno si paga le proprie tasse”: l’inquilino le sue e il padrone di casa le sue.
Ed allora, è valida la clausola che scarica il peso fiscale della casa in affitto sull’inquilino?
Dicevamo nel precedente paragrafo: è valida la clausola che scarica il peso fiscale della casa in affitto sull’inquilino?
La risposta è “ni”: tutto dipende dal tipo di tassa e da come è stata scritta la clausola. Almeno questo sembra trasparire dalle parole delle Sezioni Unite della Cassazione.
Iniziamo dalle imposte dirette, come l’Irpef. Queste non possono mai essere scaricate sull’inquilino e spetta al locatore versarle [3]. C’è poi il bollo che, come detto, non può essere scaricato tutto sul conduttore.
Vediamo ora le imposte indirette ossia quelle sull’immobile: Imu e Tasi. Per quanto riguarda l’Ici-Imu, Tasi e Tari il patto traslativo non è vietato da specifiche norme (a differenza di altre imposte). Dunque, se il contratto dice che il locatore deve essere «manlevato» dal conduttore, il quale è tenuto «a farsi carico di ogni tassa, imposta e onere relativo ai beni locati», la clausola va intesa nel senso che al proprietario dell’immobile è dovuto un rimborso o una diversa forma di pagamento «variamente posta a carico del conduttore». Insomma, tale previsione non fa altro che stabilire un’integrazione del canone d’affitto e non una traslazione dell’obbligazione tributaria. Lo dimostra la fatturazione del rimborso degli oneri. Non si può ritenere che essa si risolva quindi nel riversare l’onere fiscale dell’Imu su di un soggetto diverso da quello passivo tenuto per legge a subire il relativo sacrificio patrimoniale.
Una cosa è dire che si tratta di un rimborso, un’altra è dire che le tasse gravano sull’inquilino. Nel primo caso il canone di locazione risulta determinato sulla base di due componenti: una l’affitto vero e proprio, l’altra la “copertura” dei tributi.
Risultato: nella locazione dell’immobile a uso diverso da quello abitativo è valida la clausola per cui il conduttore si fa carico di ogni tributo e onere relativo al cespite manlevando il locatore, che tuttavia continua a pagare tasse e imposta in base al proprio reddito. E ciò perché la pattuizione non determina una traslazione in capo al locatario delle imposte che gravano sul cespite ma costituisce soltanto un’integrazione del canone di locazione.
Del resto la legge ha previsto la possibilità di contratti di locazione a canone libero, lasciandone la determinazione alla libera volontà delle parti, che ben possono prevedere l’obbligazione di pagamento per oneri accessori.